Il contemporaneo in mostra tra ego e denuncia

A Palermo, a Palazzo Ajutamicristo, l'esposizione '10' dell’artista catanese Giuseppe Patané scandaglia i limiti della società odierna. Un talento emerso per caso, grazie a un sopralluogo di Sgarbi e Grasso in Sicilia

di Antonio Schembri

29 Dicembre 2018

Un obelisco composto da 5 fantocci che a prima vista sembra evocare, sebbene in proporzioni ridotte, i ‘castells’, le folkloristiche torri umane della Catalogna, ma che in realtà fotografa tutt’altro che valentia ostentata per divertimento. Poco distante, un dipinto di fronte a un grande schermo con immagini in movimento, entrambi dai contenuti scabrosi. Infine, decine di quadri dedicati alla tauromachìa, con il toro, animale simbolo della forza assoluta, ma costretto a soffrire e a soccombere a causa della crudeltà cruenta e volgare della corrida. width=Ruota su queste tre sezioni narrative ‘10’, titolo della mostra dell’artista catanese Giuseppe Patané, allestita a Palermo nel cinquecentesco Palazzo Ajutamicristo fino al 31 gennaio. Uno degli appuntamenti con cui il capoluogo siciliano ha concluso la sua fitta annata di capitale della cultura d’Italia.Per Patané, che arriva dal mondo della moda dove a lungo ha lavorato come vetrinista e fashion designer tra Milano e Parigi per la maison di Pierre Cardin (dove negli anni ’80 è stato anche direttore creativo) – dieci non indica solo un numero, ma anche un pronome personale. “Ho scelto di intitolare così questa mia esposizione – spiega – perché il primo numero a due cifre – quello più completo e rassicurante, quello che evoca i Comandamenti e il massimo voto nella valutazione scolastica – si può leggere anche come ‘Io’: quindi ego, vanità, sopraffazione. Ovvero il fattore determinante della distruttività umana. Lo scopo di queste mie opere è recuperare la simbologia costruttiva del 10 e allo stesso tempo denunciare, dire con forza ‘basta’ alla china rovinosa imboccata dalla società contemporanea: confusa, contraddittoria, violenta, nella quale tutti siamo colpevoli e partecipi”. width=Patané, che dipinge ‘a piena mano’, usando cioè direttamente palmi e dita, offre più dettagli della sua narrazione: “L’installazione della torre umana evoca una struttura dominata dall’egoismo manifestato in diversi strati sociali. La prima delle cinque persone è distesa per terra: si tratta di un prete, vestito della sua casula, che afferra con le mani le caviglie di un uomo all’impiedi, elegantemente vestito, identificabile come un businessman o un politico. Questo regge sulle spalle un altro uomo comune, molto diverso da lui, che, a sua volta, porta sulle proprie spalle una donna, piegata, in bilico, anche perché schiacciata dal peso dell’ultimo componente della piramide umana: un giovane che, incurante e arrogante, scrive su un muro ‘Io’. Questa colonna pericolosamente barcollante è per me la società in cui oggi viviamo, spesso anestetizzati”.Un messaggio che arriva e stordisce anche attraverso le immagini crude del quadro intitolato ‘No Love’: “rappresenta un cuore che invece di trasmettere sentimento puro e passione che dovrebbe alimentarlo, comunica solo aberrazioni sessuali che lo sviliscono del tutto. Le stesse espresse dalle immagini del video”. Per questa ragione, la stanza in cui queste opere sono collocate non è visitabile dai minori.Leit motif della mostra è il toro. “È l’animale che ritengo rappresenti di più l’ego, in tutta la sua fragilità”, spiega l’artista. Immagini in cui la pelle scura del bovino, raffigurato immobile prima di attaccare, e poi in corsa disperata contro il toreador, si staglia in uno sfondo di colore rosso vivo, quello del suo sangue, che sta già versando nell’arena come vittima sacrificale.“In questa sezione – aggiunge Patané – si trova in particolare un mio dipinto intitolato ‘Paesillo’. È la stanza antistante l’arena, uno spazio ristrettissimo in cui il toro viene prima innervosito aizzandogli contro altri due tori e praticandogli scariche elettriche e poi semiaccecato dalla vasellina cosparsa sugli occhi, prima di essere gettato nell’arena. Sono stato molto toccato da questa tradizione culturale ancora sacra in Andalusia ma che considero orrida e infame. E sono stato ispirato dallo sguardo penetrante di questa bestia imponente e ansimante, fiera e forse inconsapevole del triste destino al quale solo di rado sfugge”. width=Giuseppe Patané dipinge da decenni ma approda ufficialmente al proscenio delle arti figurative solo in tempi recenti. “Il primo di questi quadri sulla tauromachia risale agli anni ’80, l’ultimo l’ho creato tre anni fa”. Un arco temporale in cui ha prodotto tanti altri dipinti dalle tematiche diverse, ma tutti accomunati dalla finalità di denuncia sociale.Artista ‘inconsapevole’ Patanè, almeno fino a quando Vittorio Sgarbi e Giorgio Gregorio Grasso nel 2014 si presentano grazie all’amica e curatrice Carmen Bellalba a casa sua, una splendida dimora vicino Riposto per discutere dei locali in cui allestire un vernissage.A colpirli è uno di quei quadri sulla tauromachia. “Inizialmente non ho detto di essere l’autore, quasi mi vergognavo di quel dipinto, prodotto di getto, senza pennello ma con le mani. Quando alla fine l’ho ammesso mi annunciarono subito che da quel momento avrei fatto parte della loro scuderia. Al punto da vedere esposto di lì a poco quel quadro in una mostra nel castello di Torre Archirafi.“A quella mostra arrivò anche Franco Battiato che restò così ipnotizzato da quel toro che lo volle acquistare subito per 10mila euro, senza però riuscirci, perché rifiutò di firmare una liberatoria che Sgarbi e Grasso pretesero per consentire di esporre il quadro in altri siti. “Una cifra spropositata per me che mi consideravo pittore per diletto – confessa Patanè – e da quel momento, a detta dei due critici, addirittura nel novero europeo degli espressionisti contemporanei”.Alla fine quel quadro è stato esposto all’Expo di Milano e successivamente venduto per 40mila euro a un investitore russo che invece la liberatoria la firmò. Poi un crescendo continuo fino alla Biennale di Venezia. “Ma io mi sento ancora fondamentalmente un creatore di vetrine di moda – dice – Un lavoro, quello, che si esegue con le mani: le prime e le ultime antenne della ragione”.