Nel museo dove i vecchi computer tornano in vita
La passione di un gruppo di “smanettoni” di tutta Europa con incarichi tra Google...
di Amministratore
1 Luglio 2018
Steve Jobs aveva fondato la Apple nel suo garage, loro hanno iniziato a raccogliere vecchi computer nel centro sociale Auro di Catania per rimetterli in funzione. E se il genio visionario di Jobs ha anticipato il futuro con la sua “mela”, qui un gruppo di appassionati ha realizzato un’idea guardando invece al passato tecnologico. Non è certo l’unica differenza, ma a unire le due storie è la passione per l’informatica e la sfida della sperimentazione continua. Dagli anni ’90 a oggi, infatti, hanno racimolato e riparato oltre 2000 macchine che ora espongono a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, nel Museo dell’Informatica funzionante (MIF), sono gemellati con il museo interattivo di Archeologia informatica (MIAI) di Cosenza, godono della fiducia Unesco e della Free software Foundation, e hanno raccolto intorno a sé una folta comunità internazionale di ricercatori, scienziati e semplici appassionati che li supporta in molti progetti. “Loro” sono una ventina di attivisti sparsi in giro per l’Europa con diversi incarichi tra Google, Amazon, Facebook, e forniscono il sostegno economico alle loro attività che, precisano, “non hanno ricevuto alcun aiuto o interesse dalle amministrazioni locali”.Il MIF è nato nel 1994 da un’idea di Gabriele Zaverio, siracusano, e inizialmente doveva essere una collezione di pezzi “vintage” da riutilizzare. “Ma non un museo tradizionale con oggetti immobili in teche di vetro dove i visitatori passano e se ne vanno. Man mano che i pezzi aumentavano, però, – racconta Gabriele, direttore del museo – è arrivato il coinvolgimento di tre organizzazioni diverse, il Freaknet medialab che è stato il primo laboratorio in Italia che forniva gratuitamente email e accessi ad internet ed era ospitato al centro sociale di Catania, un gruppo di programmatori di software libero, Dyne.org, e altri informatici del Poetry Hacklab. La gente iniziava a portarci macchine molto vecchie, anche periferiche e manuali, la nostra sfida era rimetterle in funzione, accenderle, caricare i programmi, un po’ come fanno i bambini quando smontano un giocattolo. Del resto, l’imperativo degli hackers è sempre stato ‘hands on’! Cioè ‘metterci le mani sopra’, per cui pensavamo a un museo dove le persone potessero provare dal vivo i computer storici, e cosi è stato: per quelli più complessi e delicati lo si può fare sotto la supervisione dei nostri tecnici”.Ma i progetti non si sono fermati al museo di Palazzolo, dove si organizzano anche corsi di formazione e di recupero dati da media obsoleti. Grazie alla rete di contatti che negli anni si sono costruiti, i promotori hanno realizzato un’impresa quasi titanica: trasferire in Italia un enorme e storico computer, “un sistema GE-120 prodotto nel 1969 dalla General Electric Information Systems Italia che era utilizzato all’interno dell’aeroporto di Zurigo – ricorda Gabriele – Per noi una bella sfida, perché la General Electric si stava fondendo con la Olivetti, ci sono quattro marchi diversi sulla macchina e su quella sono stati fatti i primi esperimenti di musica elettronica. Il proprietario, Markus, che lavorava come tecnico in aeroporto, aveva conservato per anni nella sua casa di campagna questo dinosauro tecnologico che alla fine è pesato cinque tonnellate, abbiamo dovuto riempire due camion e mezzo per portarlo dalla Svizzera”. Un imprevisto, quello del peso, che non avevano calcolato, al punto da dovere lanciare una raccolta di crowdfunding per reperire i fondi necessari e trovare una sede alternativa a quelle, già affollate, di Palazzolo e Cosenza. “Alla fine abbiamo raccolto i 3500 euro necessari, tra investitori on line e sul territorio. “Per fortuna c’è la documentazione della macchina, abbiamo intervistato il progettista, che era di Milano, e, ora tenteremo il restauro, anche se sarà complicato”.Insieme a Emiliano Russo, dell’associazione “Verde Binario” che gestisce il MIAI di Cosenza, tentano poi di ricostruire la genesi di quello che hanno chiamato un “Rimbaud virtuale”, esplorando i rapporti tra scienza e letteratura. L’esperimento poetico era stato fatto nel 1961 da Nanni Balestrini, “che aveva utilizzato un pc per ricombinare in modo imprevisto frammenti di altre poesie di autori diversi – dice Gabriele – in una sorta di happening avvenuto nei sotterranei della cassa di risparmio delle province lombarde, alla presenza di Umberto Eco e del musicista Luciano Berio, a Milano. Il nome della poesia ricavata alla fine era preso da uno dei nastri magnetici del computer IBM 7070, un processo ricostruito nell’ ‘Almanacco letterario Bompiani – le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura’ pubblicato nel 1962”.Il gruppo riesce a ricostruire l’algoritmo in grado di riprodurre l’esperimento su un moderno computer. “Ci siamo interrogati su questa operazione e su quale alla fine fosse la vera opera, se l’evento del 1961 o la poesia scelta da metri e metri di tabulato… alla fine abbiamo regalato a Balestrini un piccolo box/tv di legno che riproduce su un tubo catodico in bianco e nero le poesie generate dal nostro software”. A realizzarlo, oltre Gabriele ed Emiliano anche Vittorio Bellanich, ed è piaciuto cosi tanto al poeta da “averlo esposto nella sua mostra personale allo Zkm (Zentrum für Kunst und Medientechnologie, centro per l’arte e la tecnologia dei media di Karlsruhe, ndr) in Germania. Tutto ciò che facciamo è frutto di volontariato, crediamo profondamente nel valore della ricerca e del sapere condiviso, in fondo cerchiamo di salvare la storia dell’informatica dalle discariche”.