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Alla Favarella tra storia, agrumi e misteri: un viaggio nel cuore nascosto di Ciaculli

Un'esperienza speciale nell'ultimo weekend del Genio di Palermo con il geologo Pietro Todaro e l’agronomo Giuseppe Barbera alla scoperta dell'ultimo lembo di Conca d'Oro

Di Redazione

26 Maggio 2025

Sono gli ultimi scampoli di Conca d’Oro, dove un tempo sgorgavano sorgenti arabe. Tra agrumi e bagli, si intrecciano le storie del fondo Favarella, che raccontano di agricoltura, archeologia industriale, bellezza paesaggistica, ma anche di pagine nere della città. Nelle campagne di Ciaculli, terra del mandarino tardivo, durante l’ultimo weekend del festival Il Genio di Palermo, Giuseppe Barbera, agronomo e paesaggista, e Pietro Todaro, geologo e massimo esperto del sottosuolo palermitano, hanno condiviso la loro conoscenza di un patrimonio nascosto.

Un’esperienza che ha portato alla scoperta del baglio settecentesco e della pirrera sotterranea, una cava di calcarenite che durante la Seconda guerra mondiale fu utilizzata come rifugio antiaereo. Fu qui, infatti, che centinaia di abitanti della zona si salvarono dai bombardamenti. 

“Ci troviamo nella Piana di Ciaculli, nella parte più orientale, nota come il fondo Favarella, l’ultimo lembo della Conca d’Oro coltivata a mandarini – ha spiegato Pietro Todaro –. Qui si trovano alcune delle cave di pietra più antiche della città, diventate un grande rifugio antiaereo. La popolazione correva a ripararsi in questi ambienti per sfuggire alle bombe”. Ma a partire dagli anni ’70 e ’80, il caseggiato che sorge sopra la cava divenne un luogo strategico per la storia criminale della città. Da numerose testimonianze, tra cui quelle dei collaboratori di giustizia, si apprende che qui si riunivano i vertici di Cosa Nostra, capeggiati da Michele Greco, detto il Papa. “Dalle dichiarazioni dei pentiti sappiamo che nel caseggiato soprastante alla cava si riunivano i capimafia – continua Todaro –. Si dice anche che questi ambienti fossero utilizzati come laboratorio per la produzione di stupefacenti. Michele Greco si era fatto costruire un corridoio ad hoc: sotto un tappeto, una botola portava direttamente dal salotto agli ambienti sotterranei. In caso di pericolo, era una via di fuga sicura”.

A raccontare la sua esperienza è stato anche Giuseppe Barbera, che da giovane agronomo si trovò a frequentare assiduamente l’azienda agricola di Michele Greco, ignaro della rete mafiosa che vi si celava dietro. “Mi fu proposta, dopo la laurea, una borsa di studio all’Istituto di coltivazioni arboree – ha raccontato –. Io fui ben accolto in questa azienda. Iniziai a studiare l’irrigazione del mandarino, il cosiddetto mandarino tardivo palermitano. Venivo spesso qui, parlavo con Michele Greco dell’annata, se era buona o cattiva, come andava il mercato. Sembrava un vecchio gentiluomo di campagna”.

Un idillio che col tempo si offuscò. Barbera stesso fu chiamato a testimoniare al maxiprocesso di Palermo, nel bunker dell’Ucciardone. “Io ogni tanto penso: chissà cosa sarebbe successo se avessi visto qualcosa che non dovevo vedere. Capitava che chiudessero il cancello per quindici giorni e non si potesse entrare. Fui chiamato come teste a discolpa al maxiprocesso, perché per l’avvocato di Michele Greco io ero la prova che non c’era nulla da nascondere: avevo le chiavi, potevo entrare quando volevo. Raccontai che era vero, ma solo in parte: una volta al mese le chiavi venivano cambiate. Per una settimana non potevo entrare, mi disperavo finché mi consegnavano le nuove. Poi, un mese dopo, ricominciava tutto da capo. Sono sopravvissuto a tutto questo”.

L’esperienza ha permesso anche di scoprire un raro esempio di tecnologia agricola d’epoca: una macchina a vapore dell’Ottocento che metteva in funzione le “trombe d’acqua” per l’irrigazione, alimentata a legna o carbone. Una sorta di piccola locomotiva, testimone silenziosa di un passato in cui l’agricoltura palermitana si dotava di strumenti all’avanguardia per sfruttare le acque del sottosuolo.

(Video Rosaura Bonfardino)