C’era una volta Brancaccio, dove due mari si guardavano
Oggi è un popoloso quartiere di Palermo, ma un tempo era una fra le più fertili terre della Conca d'Oro, ricca di bagli, mulini e sorgenti d'acqua
di Emanuele Drago
2 Gennaio 2020
“Quale visione tu offri, Favara, eccelso palazzo! Oh tu soggiorno di voluttà, alle rive dei due mari. In te l’acqua si dipana in nove ruscelli, e tra gli alberi e il verde inumidisce i giardini…”. Leggendo questi versi del poeta Abd Ar Rahman, sembra davvero incredibile che il tempo buio della storia della città di Palermo, soprattutto durante le due guerre di mafia, sia riuscito a trasformare un luogo un tempo incantevole, quale fu appunto Brancaccio e Maredolce, in centro nevralgico in cui, fino a un quarantennio fa, ebbero luogo loschi maneggi e omicidi.
Ma adesso che quei tristi tempi sono lontani, grazie anche alla voglia di riscatto di molta gente del luogo, oltre all’azione meritoria di varie associazioni laiche e religiose, diventa ancora più importante riscoprire la storia di una delle zone più fertili della Conca d’Oro, quale fu appunto Brancaccio. Il feudo di Brancaccio, fin dal Medioevo, era conosciuto come “Cassarorum” e constava di antichi ruderi o bagli agricoli (Bagli Alliata, Di Pisa, Molone di Sopra, Alici, Inguaggiato e soprattutto il baglio Federico) di alcune ville (Casa Buffa, villa Vignivales e Gallo) oltre a una torre posta ridosso della linea ferrata che collega Messina al capoluogo. Ma tutta quanta la zona era disseminata di mulini, macine in cui veniva lavorato il grano, e che venivano alimentate da numerose sorgenti e dai qanat di cui era ricca la zona. E d’altronde tutta quanta la corona di monti della Conca D’oro, a fronte di un tessuto urbano davvero esiguo, racchiudeva tre grandi parchi: il Genoardo, il Parco Nuovo che venne realizzato nella zona di Altofonte e l’antico parco della Fawwara.Fu proprio su quest’ultimo parco che, a partire dalla metà del Settecento, grazie all’opera di don Antonio Brancaccio, potente amministratore della città di Monreale, di origini napoletane, la zona iniziò a popolarsi: risale infatti a quel periodo l’edificazione della chiesa di Sant’Anna, poi denominata del “Divino amore”, dedicata a San Gaetano di Thiene. Oltre ad Antonio Brancaccio, un altro personaggio che diede impulso allo sviluppo del quartiere fu il conte Federico, barone di San Giorgio e Villalba. Il conte, che già possedeva un palazzo all’Albergaria, edificò a pochi metri dal castello di Maredolce il proprio baglio agricolo. Alla fine di via Conte Federico, sulla piazza che prende il nome dell’Emiro Ja’far, si trova il castello di Maredolce. Costruito dalla dinastia Kalbita, dentro una più ampia cittadella fortificata e sui resti di un caravanserraglio, fu in seguito profondamente rimaneggiato dai normanni. Sembra che il Qasr possedesse anche un hammam, dotato di laconicum, calidarium e frigidarium; un luogo che è ormai impossibile rintracciare, in quanto le strutture del bagno termale sono state inglobate dentro una palazzina privata.Ruggero II si era talmente innamorato del luogo che, a partire dal 1071, al suadente palazzo di Ja’far al Kalbi II aveva deciso di far incorporare una cappella reale che venne consacrata ai santi Filippo e Giacomo. Ma il sovrano non volle limitarsi a ciò; infatti, oltre ad abbellire la struttura del palazzo, si occupò anche dei giardini che davano sulla parte interna della solatia. Così, per evitare che le copiose acque che scendevano dalla sorgente della Fawwara (68 litri al secondo) e precisamente dagli Archi di San Ciro, si disperdessero tra le campagne, decise di farvi edificare un grande muro di contenimento che, oltre a fungere da diga, finiva per creare un voluto effetto magico: chi si fosse posto alle pendici del monte Grifone, tra la verdeggiante campagna di Ciaculli, avrebbe ammirato due mari, il mare di acqua dolce creato artificialmente, e il mare Tirreno che bagnava la costa sud di Palermo.Ma la bellezza del luogo, decantata da Ibn Hawqal e da Ibs Guibayr, era anche impreziosita dalla presenza sul grande lago di un isolotto creato artificialmente. Sembra che alla base dell’opera vi fosse una necessità estetica: far emergere dall’acqua dei ciuffi d’erba che, specchiandosi insieme agli alberi di agrumi sul lago, dessero vita a una profusione di colori. Insomma, una sorta di agdal siculo non dissimile da quello di Marrakesh.Recentemente lo studioso Josè Tito Rojo ha anche scoperto che l’isolotto, esteso per circa due ettari, non riproducesse altro che la forma della Sicilia stessa, così come veniva disegnate nelle immagini cartografiche del geografo Idrisi. Oggi del lago non v’è più traccia ma, a quanto pare, s’era già prosciugato al tempo di Federico II d’Aragona; tant’è che venne riutilizzato dai nuovi proprietari, – prima i Bologna e poi gli Agraz – come tenuta agricola. Col tempo l’intero manufatto cadde in uno stato di totale abbandono, finché, seppur con grande lentezza, a partire dagli inizi del Novecento e poi negli anni Trenta ebbero inizio i lavori di recupero dell’edificio. Lavori grazie ai quali il palazzo è stato liberato, non solo dalle numerose superfetazioni, ma perfino da edifici abusivi edificati fin dentro l’aula porticata.Grazie ad altre tre ricognizioni archeologiche – avvenute tra l’inizio degli anni Novanta e nel 2011, guidate dai professori Amedeo Tullio e Emanuele Canzoneri – è stato anche possibile scoprire, oltre alle diverse stratificazioni presenti nel piano del calpestio, l’esistenza di ben tre fornaci, sotto il pavimento dell’aula porticata. Fornaci che evidentemente servivano alla produzione di oggetti in coccio per la lavorazione delle cannamele. In conclusione, ci auguriamo che in tempi brevissimi anche Maredolce venga ufficialmente annoverato tra i principali luoghi che costituiscono l’itinerario arabo normanno di Palermo. Non solo per le enormi stratificazioni storiche che il sito in sé ingloba, ma anche per il valore culturale, essendo stato uno dei principali luoghi in cui, durante il regno di Federico II Hohenstaufen, si riunì la Scuola poetica siciliana.*Docente e scrittore