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La cyber-Turandot con i maghi della videoarte

Il nuovo allestimento dell'opera di Puccini, con cui si inaugura la stagione 2019 del Teatro Massimo, porta la firma del collettivo russo Aes+F. L'azione si sposta nel 2070 e rimanda a una visionarietà iperreale e barocca, vicina a Blade Runner

Di Paola Nicita

17 Gennaio 2019

Quando, alcuni anni fa, sbarcarono per la prima volta in Laguna in occasione della Biennale di Arti Visive di Venezia del 2007 – dove poi torneranno ancora a rappresentare la Russia nel 2009 e nel 2015 – il gruppo di videoartisti AES+F mise subito sul tappeto, attraverso una grande videoinstallazione, i temi della ricerca e la costruzione del proprio linguaggio: contenuti epici di una vita quotidiana patinata, dove il 3D modellava architetture e mondi iperrealistici, nei quali si muovevano con solennità figure di giovanetti e giovanette appena usciti dalle pagine di Vogue.

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E d’altronde c’erano già tutti gli elementi caratteristici degli AES+F: ovvero dei due architetti, Tatiana Arzamasova e Lev Evzovich, del grafico Eugeny Svyatsky, e del fotografo di moda Vadimir Fridkes, gli AES che si formano nel 1987 e che nel 1995 aggiungono la F del fotografo di moda Fridkes, proponendo le loro creazioni dove si intersecano fotografie, video e tecnologie digitali, senza perdere mai d’occhio la scultura e lo studio dello spazio come architettura dell’immaginifico.E sono proprio i videoartisti russi ad essere chiamati a inventare i nuovi mondi proiettati nel futuro e immaginare videoscene e costumi di una Turandot, con le musiche di Giacomo Puccini, ma ambientata nel 2070. Con questa opera il 19 gennaio si inaugura la nuova stagione del Teatro Massimo di Palermo, con la direzione di Gabriele Ferro, il concept degli AES+F e Fabio Cherstich, che firma anche la regia; una coproduzione con il Teatro di Bologna, il Badisches Staatstheather di Karlsruhe e in partnership con il Lakhta Center di San Pietroburgo.

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Gli AES+F, fedeli alla loro ricerca, inventano figure totemiche zoomorfe e antropomorfe, che intersecano le loro presenze e che spesso si pongono in continuità visiva con le figure in carne e ossa che si muovo sul palco: Turandot è a capo di un matriarcato, i draghi rossi sorvolano città galleggianti, in una visionarietà iperreale e barocca dai colori accesi, che appare più prossima a Blade Runner: che, per coincidenza, era proprio ambientato nella Los Angeles del 2019. Qui niente pioggia acida, ma la conferma che l’invenzione fantastica parla un linguaggio sempre attuale, capace di trasportare in altre e nuove dimensioni e visioni.