C’era una volta la grande sinagoga di Palermo
Nel capoluogo siciliano si trovava una delle più numerose comunità ebraiche d'Italia. Ancora oggi sono visibili tracce del loro quartiere
di Emanuele Drago
16 Dicembre 2019
La presenza di una consistente comunità di ebrei a Palermo è attestata fin VI secolo, in alcune lettere scritte da Papa Gregorio I. Si tratta spesso di ebrei sefarditi, che provenivano dal Magreb, e che avevano forti contatti, sia economici, sia culturali con i musulmani. E in tal senso si spiegherebbe come mai avessero finito per chiamare Meschita il luogo in cui venne edificata la loro sinagoga.
Quella ebraica, fin dal periodo normanno, era una comunità fiorente. Si stima che, così come venne appurato tra il 1170 e 1173 dal mercante Benjamin da Tudela, in visita in quegli anni nel capoluogo, nella sola Palermo ne risiedessero ben 8000; insomma, era certamente la più grande comunità della Sicilia se non d’Italia. Un numero destinato ad aumentare, se si considera che prima della promulgazione nel 1492 dell’Editto di Granada – che di fatto ne decretò l’espulsione – il loro numero raggiunse addirittura le 30mila unità.Una testimonianza della grandezza della sinagoga – quella che oggi noi conosciamo come la Meschita di Palermo – ce la fornì il Rabbì Obadia di Bertinoro, in una lettera scritta appena quattro anni prima che entrasse in vigore l’Editto di Granada; descrizione che qui è opportuno ricordare: “La sinagoga a Palermo – scriveva Ovadia di Bertinoro – è senza paragone nel paese e tra i popoli, e viene lodata da tutti. Nel cortile crescono le viti su pilastri di pietra. Non hanno pari: ho misurato una vite che aveva uno spessore di cinque palmi. Di là una scala porta alla corte di fronte alla sinagoga, circondato da tre lati da un portico, fornito di sedie per quelli che non vogliono entrare alla sinagoga per un motivo o l’altro. V’è un pozzo, distinto e bello. Sul quarto lato v’è il portale della sinagoga. L’oratorio è quadrato, quaranta su quaranta braccia. In oriente v’è un santuario. Una struttura bella di pietra come una cappella, perché non vogliono mettere i rotoli della Legge in un Aron […] La comunità ha assunto cinque hazzanim. Recitano il sabato e le feste con voci e melodie dolci. Non ho visto cose simili tra gli ebrei da nessuna parte. I giorni feriali pochi frequentano la sinagoga, un ragazzo può contarli. Vi sono molti vani intorno alla sinagoga, come per esempio l’ospizio con letto per gli ammalati ed i vagabondi forastieri da parti lontane; il miqweh; la grande e bella sala dei funzionari; dove amministrano giustizia e deliberano su affari pubbliche…”.A quanto pare, secondo alcuni studi, l’atrio esterno non dava sull’attuale piazza della Meschita, ma era arretrato di alcuni metri, cadendo di fatto dove oggi si trova l’aula Almeyda dell’Archivio comunale. Certo, oggi non è facile immaginare come dovette presentarsi il quartiere ebraico appena oltre le mura; tuttavia, con un po’ di fantasia, l’operazione potrebbe apparire non così impervia. Il quartiere, infatti, aveva forma oblunga, e accorpava due diversi insediamenti: la Guzzetta e la Meschita. Sembra che proprio nella Guzzetta, dove oggi sorge il Teatro Santa Cecilia, vi fosse il grande macello e che da lì, tramite la via Ruggero Mastrangelo, si giungesse presso il quartiere della Meschita; ovviamente, non prima di aver attraversato la via Calderai, i cosiddetti “quararari”, una strada in cui venivano, e vengono ancora oggi lavorati e venduti gli oggetti di latta (quasi sempre pentole, appunto “quarare”) di stagno e di lamiera, oltre naturalmente al ferro. E in effetti il nome “Ferreria vecchia” fu l’altra denominazione che veniva usata per indicare il quartiere della Giudecca di Palermo.Sulla Meschita si aprivano quattro diverse porte, anche se la porta d’accesso all’intero quartiere avveniva dalla Porta di Ferro o Judica, comunicante col Cassaro. La prima la porta d’accesso al quartiere della sinagoga era l’arco della Meschita, la seconda invece dava su via Lampionelli; infine, le altre due, erano ubicate dove adesso sorge l’Arco del Notaro e il cortile San Nicola, quest’ultimo posto all’inizio di via Giardinaccio.Il quartiere sottostava ai capricci del Kemonia, tant’è che nei punti in cui durante le piene l’ansa del fiume si ingrossava, vennero realizzati tre diversi ponti. Il primo ponte si trovava in via Ponticello, dove sorgeva la porta Judica, il secondo dove confluiscono le vie Lampionelli, Calderai e via Giovanni da Procida, e il terzo in via Divisi. Le abitazioni ebraiche si sviluppavano su più piani, inoltre, sui piani bassi venivano ricavate – così come ancora visibile nel vicolo Viola, in prossimità di piazza Ponticello e piazza Quaranta Martiri al Casalotto, le cosiddette Ghenize, delle incanalature in cui gli abitanti depositavano degli scritti in lingua ebraica di carattere religioso.*Docente e scrittore