La Palermo degli Ahrens, dagli anni d’oro alla diaspora

La storia della famiglia ebreo-tedesca è stata ripercorsa in quella che un tempo era la loro dimora e da qualche anno è sede della Dia

di Antonio Schembri

20 Giugno 2019

Mezzo secolo, anno più anno meno. È la stagione compresa tra la fine dell’Ottocento e gli anni ‘30 del Novecento, quando la follia del nazifascismo toccò il culmine in Italia col varo delle leggi razziali, in cui Palermo, città di corti e di governi, visse la sua prolifica e mai più riaffacciatasi stagione industriale. Grandi famiglie, tutte arrivate da fuori, vi trovarono terreno fertile per svariate attività produttive, poi devastate o spinte verso il declino dalle bombe della Seconda Guerra mondiale.

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Johanna Benjamin e Albert Ahrens

Dai Florio ai Ducrot, passando per la lunga cordata britannica capitanata dai Whitaker, gli Ingham e i Woodhouse. Ma a trapiantarsi nella terra “chiave di tutto”, come la cantò Goethe fu anche una famiglia ebreo-tedesca, gli Ahrens. La loro residenza, Villa Ahrens appunto, grande baglio situato a fianco della Villa Adriana nel quadrante nord di Palermo, fu una delle più belle e vivaci tra quelle che punteggiavano la piana dei Colli in quegli anni. Durante il regime fascista venne requisita dal governo e oggi, dopo un restauro che le ha riconsegnato l’antico fascino, è la sede palermitana della Dia (Direzione investigativa antimafia). Con le leggi razziali, la famiglia Ahrens la abbandonò, per sparpagliarsi in mezza Europa e non solo. width=A ricostruire il mondo che ha pulsato dentro questa dimora e che ha incrociato una congiuntura politica, una situazione economica e un clima culturale particolarissimi per Palermo, è “La Luce è là”, libro scritto da Agata Bazzi, discendente della famiglia. Una saga in cui le vicende personali dei componenti di questa dinastia produttiva si mescolano con la storia. “È di fatto un libro sulla città, osservata in un periodo riguardo al quale, ancora oggi, non si scioglie il dubbio se quel suo creativo e transitorio sviluppo industriale sia stato determinato dall’arrivo di famiglie straniere con tanto di capitali da investire; oppure dal fatto che industriale Palermo in quegli anni lo fosse già, al punto da calamitare quelle famiglie da diverse zone d’Europa”, considera l’autrice, che di mestiere fa l’urbanista pubblico e che anni fa ricoprì la carica di assessore comunale.Questione aperta e avvincente, nella quale Palermo emerge anche sotto aspetti meno conosciuti. A fine Ottocento, il capoluogo siciliano fu infatti centro di intrighi e complotti: “Chi poteva immaginare – dice Bazzi – che Mata Hari, la conturbante spia, fosse arrivata fin qui, così come i Rothschild, il Kaiser Guglielmo II e tante altre personalità della politica e della cultura internazionale. Tutti approdati a Palermo non certo per il sole e per il mare, ma per avviare complotti e stringere alleanze determinanti per la costruzione della storia d’Europa”.
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Un momento della presentazione del libro

Il libro di Agata Bazzi, presentato ieri nel corso di una animata conferenza, narra la storia di una famiglia che origina da un pragmatico e promettente “Ja”: fu la risposta affermativa, fatta pervenire per telegramma dalla Germania dall’avvenente Johanna Benjamin a Albert Ahrens, giovane e intraprendente ebreo che le propose il matrimonio da Palermo, dove era arrivato per conto proprio come emigrante dalla regione di Amburgo, in cui sin da giovanissimo lavorava in una fabbrica di bottoni.“Albert era un uomo di grande curiosità intellettuale e capacità manageriale diremmo oggi”, racconta il nipote Gabriele “Gabì” Morello, noto economista, oggi novantunenne, fondatore dell’Isida e una lunga trafila di consulenze per capi di governo di diversi stati, inclusa Cuba, dove Fidel Castro lo invitò a animare la cattedra di economia all’Università dell’Avana. A Palermo Ahrens arrivò spinto proprio dalle suggestioni letterarie di Goethe e impiantò una fiorente fabbrica di mobili, non solo in stile Biedermeier ma anche di oggetti innovativi. “Si deve a lui l’invenzione della sedia a sdraio”, tiene a precisare Morello. Ma, riprende Agata Bazzi, “fece sviluppare anche una produzione di tessuti e, come altre grandi famiglie siciliane, di vino, a cui aggiunse anche un’agenzia di cambio e una compagnia d’assicurazioni. Ma si dedicò anche all’attività diplomatica, come console dell’Uruguay”.
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Villa Ahrens

Il libro trae il titolo dalla frase Lik dör, la Luce è là, iscritta sulla facciata della villa. A ispirare la scrittrice “è stato soprattutto il ritrovamento di un diario di famiglia, conservato dallo zio Gabì, pieno di racconti vergati in tedesco e yiddish”. La saga familiare che ne è venuta fuori fotografa una Palermo operosa e prospera, ormai cancellata dal tempo e in cui fondamentale fu il ruolo delle figure femminili della famiglia Ahrens: oltre all’intrepida Johanna, chiamata vezzeggiativamente Hänschen (Annuccia), saggia costruttrice di fortuna accanto al marito, le sei figlie e i due figli maschi morti giovani. Un piccolo mondo a trazione femminile, quindi, di donne di carattere e grande sensibilità nel cogliere le direzioni della società e nel governare, sull’esempio del padre, gli affari familiari, unite attorno a valori come coraggio, dignità, rigore e speranza.Il mondo di questa famiglia ebrea fu sempre a stretto contatto con la popolazione di Palermo. Per volere di donna Johanna, molto attiva sul fronte della beneficienza, i cancelli della villa rimanevano aperti ogni giovedì per accogliere e sfamare la povera gente. Quando morì, a 105 anni, al suo funerale c’erano migliaia di persone, in larga parte del popolo. “Sebbene la diaspora ci abbia sparpagliati un po’ dappertutto, tra Parigi, Berlino, in Inghilterra a Newcastle, mentre in Italia soprattutto a Milano e a Savona, rimaniamo unitissimi”, dice Bazzi.“C’è addirittura un componente della nostra famiglia che raggiunse la Cina per integrarvisi al punto da non tornare più in Europa e far perdere le tracce: vorremmo ritrovarlo”, conclude Morello. Ebrei erranti, ma anche intimamente palermitani. Oggi da dentro la Villa Ahrens, si inseguono prove per sgretolare la mafia. Ma tra i giardini e le mura degli ex appartamenti padronali e delle scuderie, la prova della cultura di questa famiglia e il suo contributo alla storia di Palermo non smette di aleggiare.