L’altare ritrovato del Gagini
Sarà finalmente restaurato, ma la storia di quest'opera, piena di colpi di scena, si intreccia a quella dello Spasimo e di un quadro di Raffaello sottratto, tra mille peripezie, alla Sicilia
di Antonella Lombardi
19 Settembre 2018
La storia è di quelle che farebbero la gioia degli amanti della Cabala, con numeri e ricorrenze ricche di suggestioni. La trama è più intricata della tela di Penelope, ma forse, ora, finalmente, quei fili hanno trovato un loro ordine. Al centro della vicenda è l’altare dello Spasimo di Palermo, realizzato da Antonello Gagini intorno al 1517 e che ora, finalmente, sarà restaurato e ripristinato dopo essere stato smembrato in 50 frammenti. Un’opera d’arte ritrovata, originariamente concepita per fare da cornice al dipinto di Raffaello Sanzio che raffigura lo sgomento di Maria dinanzi al Cristo in croce, lo “Spasimo di Palermo” appunto.Un destino accomuna il dipinto, l’altare e il monumento che li ha ospitati, la chiesa scoperchiata dal fascino unico. Tre capolavori che non hanno avuto vita facile, affrontando ogni tipo di trasformazione e disavventura. Ma la tenacia di Maria Antonietta Spadaro, storica dell’arte e consulente a titolo gratuito per il Comune di Palermo nel restauro del Gagini, è riuscita, grazie a ricerche portate avanti per oltre trent’anni, a dipanare una matassa complicata da incendi, naufragi, saccheggi napoleonici, smarrimenti. Fino a oggi, cinquecento anni dopo la realizzazione di quell’altare scomposto nei pezzi di un puzzle tutt’altro che semplice da decifrare. “Tutto inizia con la decisione del ricco giureconsulto Jacopo Basilicò di patrocinare i lavori di una chiesa – racconta Spadaro – dedicata al dolore della Madonna per il figlio crocifisso, lo Spasimo, appunto, cui la moglie era molto devota. Il complesso doveva ospitare anche un altare, commissionato al Gagini, e un dipinto che viene affidato all’artista allora più ricercato in Europa, Raffaello, ingaggiato a Roma da papa Giulio II. Quando Raffaello termina l’opera ‘Lo Spasimo di Palermo’ è il 1517 e il dipinto viene spedito in nave alla volta della Sicilia. La nostra città aveva uno stretto legame commerciale con Genova e, considerato l’ingombro della tavola, circa 2 metri per 3, occorre venga imballato in un certo modo, operazione per la quale è necessario il supporto specializzato dei genovesi”. Ma quella nave col Raffaello a bordo naufraga, dando il via al primo di una lunga serie di intoppi.“Del naufragio scrive lo storico Vasari, raccontando che niente e nessuno dell’equipaggio si salva, tranne la tavola di Raffaello che, incapsulata, arriva alle coste genovesi. Urlando al miracolo i liguri vogliono trattenere il dipinto, al punto che tocca al papa intervenire per stabilire che il quadro torni ai siciliani”. Un’ unione che dura poco, dato che è il sito dello Spasimo a iniziare ad avere la sorte contro: “Basilicò era morto da un pezzo, lo Spasimo non è più un convento ma diventa il primo teatro di Palermo, poi trasformato in magazzino del Senato, infine in lazzaretto e ospizio. I monaci intanto erano andati via portando con sé gli arredi, compreso il Raffaello e l’altare”.Ci si mette di mezzo pure la corona di Spagna, con Filippo IV che vuole a tutti i costi quel Raffaello e incarica il suo viceré in Sicilia, don Ferdinando d’Ayala di sottrarlo a Palermo: “Il viceré corrompe, riuscendoci, l’abate del monastero, promettendogli in cambio rendite che non vedrà mai – ricostruisce la Spadaro – il dipinto arriva così in Spagna, all’Escorial, nel 1661”.L’opera finisce per essere razziata anche da Napoleone, arrivando in Francia. A quel punto, messa a dura prova prima dal naufragio di Genova e poi da un incendio all’Escorial, necessita un restauro. Il restauratore si trova di fronte alla necessità di trasferire la pellicola pittorica dalla tavola alla tela, un supporto che consente maggiore elasticità. Dopo la sconfitta definitiva di Napoleone molte delle opere rubate ai Paesi conquistati furono restituite, tra queste il Raffaello che finì nel più importante museo spagnolo, il Prado”. Come un segugio, la storica insegue per anni le tracce del Gagini, ma ogni volta la tela si disfa: “Scopro che l’altare viene acquistato dai Gesuiti per metterlo nella loro chiesa del Collegio massimo al Cassaro, quel complesso che oggi comprende anche il Convitto nazionale. L’area della chiesa corrisponde all’attuale androne della biblioteca centrale della Regione, un altro luogo che non esiste più e che complica la ricerca. Arriviamo al 1888, quando i Gesuiti lo espongono al museo nazionale dell’Olivella, poi diventato Salinas, dove il Gagini sarebbe dovuto restare”.Ma ancora una volta non c’è pace per quest’opera: nel dopoguerra tra bombardamenti e restauri necessari le opere vengono trasferite. Il Museo nazionale diventa archeologico Salinas, molte opere moderne vengono portate nel restaurato Palazzo Abatellis, e l’altare del Gagini, “enorme, che non rientra né tra le opere moderne dell’Abatellis né in quelle archeologiche del Salinas, viene restituito nuovamente ai Gesuiti che lo scompongono per portarlo a Bagheria, a Villa San Cataldo, una loro struttura con uno splendido giardino barocco. Ricomincio le ricerche in archivio, fino a quando trovo, tra le immagini della Sovrintendenza di Palermo, una cartella dimenticata con su scritto: ‘chiesa del collegio dei Gesuiti’. Un’illuminazione”.”Era la chiesa che aveva ospitato l’altare, e che mi consente di ricostruire la disposizione delle colonne e le decorazioni. Parlando con i Gesuiti capisco che devo andare a Bagheria, dove mi trovo di fronte a una serie enorme di frammenti sparpagliati e misti ai marmi di altre chiese. Grazie al supporto e ai disegni di un gruppo di colleghi dell’università inizio a tracciare i rilievi dei pezzi esistenti facendo riferimento alla foto ritrovata che diventa una sorta di bussola. Era il 1986, ora finalmente, dopo tante promesse, arriva il restauro di quei cinquanta pezzi, a cinquecento anni dalla loro realizzazione”.Va detto che nella simbologia della cabala, il 5 rappresenta il “cercatore”, che si distingue per “dinamismo e curiosità”, ma questa è un’altra storia.