L’alluvione di Palermo e il clima che cambia
L’intensa alluvione del 15 luglio invita a ripensare a una città che si attrezzi per un clima diverso e che adegui reti idrauliche e sistemi di monitoraggio
di Giuseppe Barbera
16 Luglio 2020
Ieri, in poco più di un’ora, sono caduti su Palermo almeno 125 millimetri di pioggia. Un quinto, circa, di quello che sulla città cade mediamente in un intero anno. Una intensità oraria che, a detta di una pubblicazione del Museo Gemmellaro dell’Università, non si è mai verificata a partire dal 1867 (primi dati disponibili) e un totale giornaliero che non si riscontra almeno dal 1791, cioè dai primi dati disponibili dell’Osservatorio astronomico. Per intenderci: i dati dell’alluvione del 1931, quella delle vecchie fotografie con le Balilla che galleggiano per via Roma, dicono di 349 millimetri, ma in 39 ore. E questo è successo non nei tradizionali mesi piovosi (quelli invernali) ma in piena estate al centro di quell’arco di tempo che il clima mediterraneo definisce “il periodo arido”.
È chiaro, quindi, che è avvenuto qualcosa di assolutamente eccezionale e imprevedibile (nessuna previsione meteo, del resto, lo indicava). È successo a Palermo ma negli stessi giorni succedeva, per esempio, in Giappone e con settanta vittime. Eccezionale e imprevedibile, quindi, a scala locale ma, se consideriamo la scala planetaria, perfettamente in linea con quel fenomeno ultra noto che è la tropicalizzazione del clima, l’incidenza di eventi estremi come conseguenza del riscaldamento globale. Pensate davvero che la pulizia dei tombini e dei caditoi, efficienti sistemi di allarme eccetera, avrebbero evitato la straordinaria alluvione? Non sarebbe successo: la rete di deflusso delle acque piovane della città anche se fosse stata ben tenuta (è evidente che così non è stato), avrebbe solo in piccola parte ridotto i danni. È stata, infatti, progettata per eventi che non si potevano immaginare di tale gravità e mi aspetto per questo il parere autorevole di ingegneri idraulici.Il punto allora non è tanto quello di trovare colpevoli, ma di pensare a una città che si attrezzi per un clima diverso da quello che conosciamo: grandi caldi, piogge intense. Una città che adegui le sue reti idrauliche, i suoi sistemi di monitoraggio e allarme; che eviti altro cemento e asfalto a rendere impermeabili i suoli, che copra di alberi gli spazi liberi fin sulle montagne a trattenere le acque piovane e a rinfrescare e purificare l’aria. Una città (cittadini e amministratori) consapevole, che guardi ai grandi cambiamenti planetari in atto (tra questi va messa anche l’emigrazione che proprio i disastri climatici nei paesi di origine rende irrefrenabile) e che compia la sua parte. Come si dice: che pensi globalmente e che agisca localmente.