◉ ARCHEOLOGIA
San Giovanni dei Lebbrosi e il grande ospedale normanno di Palermo
Per secoli è stata ritenuta la chiesa normanna più antica della città, risalente al 1070, adesso nuove ricerche compiute da studiosi di una cordata italo-spagnola, hanno dimostrato che l’edificio fu fondato da Ruggero II nel 1130. Sarebbe stata la cappella di quel grande immobile indicato come lebbrosario
di Antonio Schembri
12 Dicembre 2023
Quella piccola e austera chiesa normanna non si scorge né si riconosce nel centro storico di Palermo. Semplicemente perché non c’è. San Giovanni dei Lebbrosi, la chiesa in cui negli anni ’80 del secolo scorso fu sacerdote padre Pino Puglisi, si trova infatti ben al di fuori da ciò che fu per secoli la città murata. Cosicché, per arrivarci, il visitatore a caccia di suggestioni, che sia il turista in arrivo da fuori o il palermitano curioso di percorrere la storia della sua città, si deve staccare di qualche chilometro dal centro antico e immergersi con la dovuta pazienza nel caos della periferia meridionale del capoluogo siciliano. Il quartiere è Settecannoli, adiacente a quello di Brancaccio e alla sponda destra del fiume Oreto: scenario informe di palazzoni scoloriti e fabbricati cadenti di un quadrante urbano ancora dominato dal degrado.
È in questo contesto, oggi sotto la lente del corposo piano di riqualificazione della cosiddetta Costa Sud di Palermo, che il corpo quadrangolare di questo monumento a tre navate, sormontato da due cupole tinte di rosso, una delle quali sul campanile, sorprende e quasi disorienta come un piccolo baluardo di bellezza.
Un esempio dell’architettura concepita dai conquistatori venuti dal nord Europa, San Giovanni dei Lebbrosi. Forse il più antico in assoluto tra quelli che resero Palermo città “felicissima”. Somigliante, sebbene meno dotata di elementi decorativi di spicco, alle più celebri chiese con cupole di San Giovanni degli Eremiti e di San Cataldo. Ma, a differenza di queste, mai inclusa nel circuito arabo-normanno di Palermo, istituito dall’Unesco. La ragione risiede nei restauri che nel periodo tra il 1919 e il 1930 ne trasformarono molto il prospetto e eliminarono tutti gli stucchi presenti negli interni.
Per secoli San Giovanni dei Lebbrosi è stata ritenuta la chiesa normanna più antica di Palermo, fatta edificare nella suburbia orientale dai fratelli Ruggero I il Gran conte e Roberto il Guiscardo sul terreno di un grande edificio islamico, probabilmente già distrutto durante il trentennio di conflitti tra fazioni arabe che precedette l’arrivo dei due nobili militari dalla Francia settentrionale. Proprio in questo spazio Ruggero I avrebbe impiantato il suo quartier generale, funzionale alla conquista di Palermo nel 1072.
Ma è, questo, un punto storiografico da sfatare. Ricerche storiche e scavi, con i riscontri forniti dal radiocarbonio, hanno infatti accertato che San Giovanni dei Lebbrosi fu invece un grande ospedale normanno: il primo e unico a Palermo, edificato sì, sopra una fondazione di origine araba, ma per volere di Ruggero II, nel periodo appena successivo alla fondazione del suo Regnum Siciliae, avvenuta nel 1130: quindi almeno 60-70 anni dopo il periodo di costruzione tradizionalmente indicato. La chiesa sarebbe stata quindi solo la cappella di quel grande immobile – l’ospedale del re, appunto – genericamente indicato come lebbrosario.
Ad appurarlo è stata una campagna archeologica internazionale, supervisionata dalla soprintendenza ai Beni culturali di Palermo, rappresentata da Giuseppina Battaglia, e di fatto svolta da una cordata italo-spagnola di studiosi facente capo al Csic, il Consejo Superior de Investigaciones Científicas (equivalente al nostro Cnr), con María de los Ángeles Utrero Agudo, e due professori palermitani, lo storico Giuseppe Mandalà, attualmente associato all’Università di Milano dopo aver lavorato nell’istituto di ricerca basato a Madrid e l’archeologo Angelo Castrorao Barba, da qualche anno in forza all’Accademia delle scienze polacca, a Varsavia. I risultati di questa fase di ricerca, ancora ai primordi, sono stati illustrarti in un recente incontro all’Istituto Cervantes di Palermo.

La pianta della chiesa
“Un meticoloso lavoro di ricerca partito nel 2014, con circa 4 anni di studi, successivamente concretizzati in prospezioni e scavi tutt’oggi in corso, in attesa di poter pubblicare un libro che ne illustra l’evoluzione nei primi 10 anni”, spiega Mandalà. Un’operazione sovvenzionata per intero con fondi stranieri: quelli del ministero della Cultura spagnolo e del menzionato Consiglio superiore delle ricerche, nella misura del 60 per cento; e, per la parte restante, dal Barracat Trust, fondazione islamica che ha sede all’Università di Oxford e che viene costantemente alimentata mediante la Zakāt, uno dei cinque pilastri dell’Islam, corrispondente all’obbligo di elemosina prescritto dal Corano a ogni musulmano affinché possa definirsi un vero credente. In questo caso, liberalità elargite da facoltose persone del mondo mediorientale e non solo.
“Nella fase di fondazione del Regno di Sicilia, Ruggero II trova l’eredità di un passato fatto di guerre e di distruzioni – spiega Mandalà – . Plausibile quindi pensare che la maggior parte dell’architettura e della monumentalità islamica sia andata perduta in particolare tra il 1030 e il 1061, data dello sbarco dei Normanni di Ruggero I a Messina e, definitivamente, nel 1091, anno della conquista di Noto e della loro definitiva conquista dell’isola. Noi abbiamo accertato che le fondamenta di San Giovanni dei Lebbrosi corrispondessero a parte dell’area di un imponente ribat, un monastero-fortezza arabo, uno dei non pochi che circondavano la suburbia di Palermo con lo scopo composito di luogo di ascesi distante dal centro urbano, di centrale agricola e di stazione di vigilanza sulle coste dalla quale lanciare, all’occorrenza, lo jihad offensivo”.
Tutti i luoghi hanno una loro continuità storica. Si tratta di accertarla, specie su un sito come questo che meritava un approfondimento. “Ciò che si sapeva di San Giovanni è che quando i Normanni occuparono e lottizzarono questo sito, probabilmente sfruttato a scopi agricoli, per costruirvi il loro unico e straordinario ospedale regio – nell’accezione di luogo non solo di cura ma soprattutto di accoglienza e in generale di assistenza, svolto già all’epoca da quello di Gerusalemme protetto dai cavalieri monaci giovanniti dipendenti dalla Santa Sede (poi Cavalieri di Malta) – , lo fecero con un progetto probabilmente del tutto scisso dalle strutture arabe preesistenti – illustra Castrorao – . Ovvero un grande castello arabo, suddiviso in settori diversi”. Uno di quelli che costellavano i dintorni di Palermo e che meravigliarono il viaggiatore Ibn Jubayr.
“Abbiamo indentificato un muro di cinta, di un terreno all’interno del quale si definiva tutta una serie di ambienti, in particolare grandi fosse, di difficile interpretazione, probabilmente destinato a un utilizzo granario. In un momento successivo, all’inizio del Decimo secolo, sempre su quest’area venne costruito un grande edificio, di cui siamo riusciti a individuare piccoli pezzi in diversi settori. Una delle prima evidenze rinvenuta nella parte occidentale del complesso monumentale consiste in un muro di cinta: struttura che delimitava tutta una serie di ambienti diversi, alcuni pavimentati – dice Castrorao -. Sequenza di ambienti simili li abbiamo individuati anche nella parte meridionale dell’immobile, sempre divisi da un muro, che indicano la presenza di un corpo di fabbrica di una certa grandezza”.
Un’interpretazione comunque problematica che richiede scavi ancora più approfonditi. “Ciò che abbiamo a disposizione – prosegue lo studioso – è comunque comparabile alle planimetrie, caratterizzate da ambienti in successione, dei grandi ribat del Mediterraneo. Un edificio che avrà avuto una lunga attività prima di essere distrutto: non dai Normanni, ma durante la stessa epoca islamica. Ce lo ha dimostrato il risultato del carbonio 14 su una sepoltura che abbiamo individuato proprio in quest’area”.
Se i Normanni abbiano o meno sfruttato l’area prima occupata da un ribat resta ancora un capitolo da scrivere. “ Ad oggi – prosegue Castrorao – non è stato trovato nessun nesso di continuità architettonica tra la costruzione fatta erigere da Ruggero II e l’epoca islamica di Palermo, che comincia in effetti a chiudersi nel corso turbolento trentennio precedente l’arrivo di Ruggero il Gran conte e di Roberto il Guiscardo. Ma questo non vuol dire che questo nesso, con conseguente riutilizzo di parte di strutture islamiche residue, non ci sia stato”.

San Giovanni dei Lebbrosi
L’intervento archeologico portato avanti dal Csic a San Giovanni dei Lebbrosi sta consentendo di avviare la ricostruzione della topografia urbana e suburbana di Palermo al tempo del Normanni, con una lettura della stessa durante la precedente colonizzazione araba. Uno scenario naturale, agricolo e sociale piuttosto stupefacente, quello della capitale della più grande isola del Mediterraneo e della sua periferia, come testimoniò Ibn Jubayr, il poeta viaggiatore arabo-andaluso, approdato in Sicilia nel 1185 scampando al naufragio nel suo viaggio di ritorno in Spagna dopo il pellegrinaggio alla Mecca.
Ciò che il letterato trovò fu che la Palermo governata dai cristiani Normanni era tutt’altro che una terra di cui diffidare, dove funzionava un sorprendente mix culturale, confermato, tra molto altro, dal fatto che il personale di palazzo parlasse fluentemente l’arabo e le donne cristiane, il giorno di Natale, si recassero in chiesa abbigliate come donne musulmane.
“Nel periodo tra la fine della colonizzazione islamica e l’avvio del Regnum Siciliae, Palermo contava quasi 200mila abitanti ed era la seconda città europea più popolosa dopo Cordoba, che ne aveva circa 400mila, quindi almeno 4 volte più popolata di Roma (25mila abitanti) e di Londra e Parigi, che stazionavano su non più di 50mila residenti”, considera Paolo Valentini, storico dell’agricoltura del dipartimento regionale dei Beni Culturali. “Sin dall’inizio della loro presenza in Sicilia, durata 200 anni, – prosegue – i colonizzatori islamici vennero sia affascinati dalla bellezza e fertilità della Conca d’Oro sia indotti a rispettare al massimo la sacralità di Palermo, terra in cui erano morti dei santi. Lo dimostra il fatto che definivano Palermo come Madina al-Siquilliya, riferendosi a Medina, la seconda città sacra del mondo arabo, dopo la Mecca”.
In quanto tappa obbligata del viaggio di ritorno dall’Arabia prescritto dal Corano a ogni musulmano, il nostro capoluogo aveva insomma una rilevanza comparabile a quella di Kairouan, sede della più antica moschea del Maghreb. “E – continua Valentini – incantava con il suo paesaggio agricolo diversificato. Il cosiddetto seminativo-arborato, in cui convivevano piante di olivo, mandorlo, sorbo e altre, tutte nello stesso appezzamento”.
Si tratterà insomma di continuare a studiare e scavare per ricostruire questa memoria paesaggistica. Attività che necessita di fondi: “In questo primo decennio, questi sono ammontati a circa 100mila euro e sono giunti solo dall’estero”, conclude il professore Mandalà. Oggi San Giovanni dei Lebbrosi è una chiesa molto amata dalla popolazione dei quartieri orientali di Palermo. Al punto che l’attività di scavo portata avanti dal gruppo di ricerca è stata subito riconosciuta come importante e difesa dagli stessi operai del luogo coinvolti nei lavori a fronte di “strane” offerte di protezione da parte di personaggi locali. La stessa equipe vi ha tenuto dei piccoli corsi di archeologia per ragazzini che vi frequentano il catechismo.
La speranza, adesso, è che insieme ai finanziamenti che potrebbero essere erogati anche dalle istituzioni siciliane, a San Giovanni dei Lebbrosi, il primo e unico ospedale regio di Palermo a poca distanza dal magnifico Ponte Ammiraglio, venga riconosciuto il suo meritato spazio nell’itinerario Unesco.