A Salemi un gioiello barocco dimenticato
All’interno dell’ex complesso gesuitico della città, ora parte del percorso del Museo di Arte Sacra, si nasconde una spettacolare volta dipinta dal pittore bolognese Pier Francesco Ferrante, forse unica testimonianza di grande affresco ancora visibile dell’artista
di Sergio Alcamo
6 Aprile 2022
La Sicilia, si sa, è terra di tesori. Ogni epoca, dall’antichità al Novecento, ha lasciato testimonianze artistiche di inestimabile bellezza. Gli artisti e gli artigiani locali e i tanti forestieri che vi hanno operato hanno regalato alla grande isola del Mediterraneo uno straordinario patrimonio, unico e ineguagliabile. Tuttavia, se molti sono i capolavori riconosciuti a livello internazionale, vi sono ancora tante opere d’arte da scoprire e a cui restituire l’importanza che meritano.
Tra queste meraviglie da valorizzare rientra a pieno titolo la volta affrescata di un ambiente dell’ex collegio gesuitico di Salemi, un autentico gioiello barocco. E non solo perché è lavoro di un “forestiero”, un pittore bolognese giunto in Sicilia non si sa per quali tramiti verso gli anni Sessanta del 1600, ma perché, oltre ad essere una rara testimonianza di questo specialista dell’affresco – assai celebre ai suoi tempi e oggi poco considerato dagli stessi studiosi del Seicento emiliano (e assente persino dai manuali scolastici!) -, molto probabilmente è l’unico esempio in tutta l’isola di volta affrescata in puro stile barocco di ascendenza romana. Ma andiamo con ordine.Del pittore Pier Francesco Ferranti, nato a Bologna nel 1613, si conoscono una quindicina o poco più di opere, quasi tutte pale d’altare, conservate in gran parte a Piacenza e nei suoi dintorni, qualche tela di medie dimensioni di soggetto sacro in collezioni pubbliche e private, un solo disegno custodito al Louvre. Viceversa, le sue più importanti e monumentali creazioni, le pareti e le volte affrescate di chiese e conventi che all’epoca dovettero dargli fama e denaro, sono andate quasi del tutto perdute, vuoi per deperimento naturale, incuria o per distruzioni dovute alla mano dell’uomo.E mi riferisco, per quanto riguarda le poche realizzazioni nella natia Bologna, al rovinatissimo “Miracolo di Sant’Antonio”, affrescato nel portico del convento di San Francesco, alle “Due virtù che si tengono per mano” già nel soffitto di una sala di palazzo Malvezzi (ora non più esistenti per modifiche successive all’edificio) e ad una Crocifissione nel cortile di palazzo D’Accursio (palazzo Comunale), oggi quasi scomparsa; relativamente alla opere portate a termine a Piacenza, città nella quale si trasferì nei primi anni quaranta del 1600, perduto è il gruppo di angeli dipinti sulle pareti della chiesa di Santa Maria Maddalena (demolita), non più esistenti gli affreschi che decoravano il coro di Santa Maria di Campagna (distrutti per la ricostruzione del nuovo coro), così come quelli della volta della chiesa di San Bernardo (dismessa a fine Ottocento).A Piacenza Pier Francesco rimase sicuramente fino al 1653: nel maggio di quell’anno ebbe un figlio di nome Giovanni e nel luglio ricevette il saldo per le monumentali e celebri ante d’organo di Santa Maria di Campagna, iniziate nel 1649 e considerate il suo capolavoro. Da lì in avanti non si conosce molto della sua vita. Verso il 1990 si venne a sapere che in un manoscritto del 1724 del pittore, biografo e prete messinese Francesco Susinno era menzionato un “Pier Francesco Ferrante bolognese” attivo in Sicilia a Palermo e a Messina, città dove sarebbe morto nel 1676 e dove il suo corpo avrebbe trovato sepoltura nella chiesa di Sant’Anna delle Monache.Per questo stesso edificio (malauguratamente distrutto dal terremoto del 1908) il biografo riferiva che l’artista aveva dipinto ad affresco le maestose e imponenti figure della Madonna addolorata e di San Giovanni ai lati di un Crocifisso ligneo nella cappella omonima. Riguardo alle opere palermitane menzionava esplicitamente gli affreschi del nobile Oratorio della Pace a Santa Venera (demolito purtroppo nel 1852) e quelli della chiesa del monastero della Concezione al Capo (ristrutturata e nuovamente ridecorata a fine Seicento): se sui primi una recente pubblicazione ha fatto luce sull’effettiva presenza del pittore emiliano verso il 1664 in quel cantiere, sulla decorazione della chiesa della Concezione nessuna documentazione è stata finora rinvenuta.Sembra che una sorta di maledizione abbia ha perseguitato il Ferranti pittore di affreschi in patria come in Sicilia. Eppure, anche se in molti non lo sanno, proprio la nostra isola custodisce forse l’unica testimonianza del suo grandioso operare come frescante: la spettacolare e scenografica volta barocca di quella che un tempo fu la sede della Congregazione detta “Segreta” all’interno dell’ex complesso gesuitico di Salemi, e ora parte del percorso del Museo di Arte Sacra inglobato nei Musei Civici, ricca di opere di grande pregio.A rivelarci il nome dell’autore e la datazione di questa decorazione che rappresenta il “Trionfo di Gesù e Maria tra i santi fondatori degli ordini religiosi”, è padre Giuseppe Stanislao Cremona, gesuita e storico locale del XVIII secolo, il quale, in un suo manoscritto terminato nel 1762, a proposito di tale fastoso ambiente – adorno alle pareti da una boiserie di legno intarsiato e dorato, da dodici grandi quadroni ad olio e da un crocifisso ligneo scolpito nel 1664 dal famoso Milanti – scriveva che nel 1667 “mandandosi a cavare il celebratissimo Pittor di que’ tempi Pier Francesco Ferranti Bolognese, [i congregati] fecero ornar di pittura la volta, quale davvero riuscì secondo il lor desiderio, e benedissero la gran somma, che per ciò fu necessaria”.Come anticipato, le qualità di Pier Francesco Ferranti di eccelso decoratore tramandate dalle fonti trovano adesso conferma grazie a quella che al momento è l’unica sua pittura ad affresco di grandi dimensioni superstite e tutto sommato in buono stato di conservazione. L’ampio soffitto dell’aula è stato dipinto, infatti, con un grande effetto illusionistico e con un senso scenografico e teatrale tipicamente barocchi. Lo spazio reale e libero della volta è stato illusoriamente tramutato in un’architettura fittizia, impreziosita da finti stucchi a racemi vegetali intercalati da testine a rilievo, imponenti festoni e ghirlande vegetali-floreali, che improvvisamente si ‘sfonda’ al centro, offrendo al riguardante lo spettacolo della visione celeste: una abbagliante luce dorata di natura divina all’interno della quale campeggiano il corpo bellissimo ed eburneo di Cristo risorto affiancato a destra dalla bellezza tutta terrena e tenera di Maria Vergine e alla sinistra dal candido vessillo del trionfo del Redentore sulla morte.Intorno, a far da corona, i santi fondatori degli ordini religiosi, Agostino, Benedetto, Francesco di Paola, Domenico, Francesco D’Assisi; il tutto in un tripudio di angioletti festanti e roteanti colti nelle pose più disparate e coi capelli mossi dal vento, volteggianti tra nuvole vaporose a reggere chi un aureola, chi un pastorale, chi un libro, chi un giglio, i singoli attributi dei santi rappresentati.A ben guardare, però, il protagonista dell’evento mistico che si materializza davanti ai nostri occhi è Ignazio di Loyola, santo e fondatore della Compagnia di Gesù, che isolato in ginocchio sulle nuvole come su un immaginario proscenio è introdotto da un meraviglioso drappo setoso rosso scuro, sorta di sipario, retto da altri angioletti che ne raccolgono e ammassano qui e là i lembi, a creare in tal modo ampie pieghe strabordanti, ora più fitte ora più allentate. Il santo gesuita con le braccia rivolte verso il basso (dove in origine doveva forse trovar posto una ulteriore decorazione ad affresco del Nostro che molto probabilmente contemplava il succitato Cristo ligneo del Milanti e ai rispettivi lati le pitture murali di Maria addolorata e San Giovanni) rivolge lo sguardo al suo Signore che lo ricambia alzando le braccia a indicare il mondo intero e, indirettamente, la missione affidatagli: la conversione al suo Vangelo.Nelle ricadute laterali più larghe lo spazio tra le lunette – e, dalla parte opposta, quello tra le finestre – è occupato da una finta statua di angelo che emerge da due festoni di foglie, fiori e frutti; le stesse lunette, poi, piccoli palchetti di Berniniana memoria, ospitano a loro volta due o tre angioletti che da dietro un parapetto, da cui sporge una stoffa rossa ricadente verso il basso e mossa dall’aria, reggono in mano gli strumenti della passione di Gesù. Altri elementi ornamentali (finti scudi bronzei entro cornici mistilinee a finto stucco contenenti motti) completano la complessa ed esuberante decorazione.Nonostante il generale inscurimento delle pitture (di cui si auspica un intervento di pulitura per eliminare strati di sporco, macchie di umidità e ritocchi successivi), chi entra dalla porticina di ingresso viene immediatamente sopraffatto e stupefatto da tanta bellezza, magnificenza e dal senso di meraviglia. Le forme solide e i volumi espansi degli abiti dei santi, le cui fisionomie richiamano palesemente quelle del grande Guido Reni, fanno da contraltare alla leggerezza delle tinte delle carni degli angioletti fino al candore eburneo della perfetta anatomia del corpo del Cristo; il realismo materico delle pieghe dello strabiliante drappo rosso fanno risaltare la levità delle nuvole che trascolorano dal grigio scuro al perla, dal rosa al dorato.Non si fatica a riconoscere in questa composizione lo stile caratteristico e sicuramente più noto del Ferrante pittore di pale d’altare, fatto di leggerezze cromatiche, solidità di forme e forti contrasti chiaroscurali. Sarebbe molto interessante comprendere il rapporto di dare-avere con l’ambiente pittorico siciliano e di conseguenza l’influenza del frescante continentale sugli artefici della scuola pittorica trapanese, e palermitana e messinese in particolare. Siamo grati al destino che Pier Francesco Ferranti abbia lasciato nella nostra isola una testimonianza importantissima della sua grande arte. L’auspicio è che queste mie poche righe contribuiscano a iniziare quel percorso di risarcimento della sua personalità artistica e di valorizzazione del prezioso gioiello barocco di Salemi.