Negli abissi di Pantelleria un patrimonio sommerso ancora tutto da scoprire
Dopo il ritrovamento lo scorso ottobre di centinaia di anfore puniche, sono in programma altre immersioni per studiare meglio i fondali di Cala Gadir. Il soprintendente del Mare: “La strada maestra è quella tracciata da Sebastiano Tusa”
di Antonio Schembri
10 Gennaio 2023
Un relitto sommerso è l’ultimo fotogramma della vita di un’imbarcazione. Una volta adagiato sul fondo è come un libro di storia chiuso nel silenzio e nella penombra, se non nel buio pesto degli abissi, dove la luce solare non riesce a penetrare. Oggi, scoprirne uno nel Mediterraneo a profondità accessibili dai cosiddetti subacquei ricreativi, cioè entro i 40 metri, è molto raro.
Negli ultimi 60 anni l’evoluzione delle immersioni sottomarine ha infatti ingolosito saccheggiatori più o meno equipaggiati per setacciare gran parte dei declivi sommersi a quelle quote. Ciò che resta di scafi lignei o, a seconda delle epoche, delle loro lamiere, così come di oggetti nautici, dalle ancore alle catene e, soprattutto, di recipienti da trasporto come le anfore, giace su fondali molto più profondi. Lo vanno confermando recenti ritrovamenti su aree non distanti dal punto in cui i naufragi sono avvenuti.Una delle sorprese più rilevanti degli ultimi anni ha riguardato Cala Gadir, a Pantelleria, in un punto situato appena 200 metri al largo da quello sotto cui si trova il sito archeologico sommerso allestito dalla Soprintendenza del Mare tra i 18 e i 30 metri di profondità (visionabile anche attraverso la connessione da remoto con un sistema di telecontrollo sistemato sul fondo).Lo scorso ottobre la campagna di esplorazioni su questo nuovo e più misterioso areale, gestita dall’ente regionale creato 18 anni fa dall’archeologo Sebastiano Tusa, è stata portata avanti con la collaborazione della Sdss, società italiana di esplorazioni sottomarine, presieduta da Mario Arena, alto-fondalista triestino di origini siciliane. L’operazione ha consentito di accendere i fari su una scoperta sensazionale: almeno 300 anfore risalenti al Secondo secolo avanti Cristo, distese o conficcate nella sabbia, quasi tutte integre, su un declivio a 130 metri di profondità.Un risultato ottenuto in soli 5 giorni di immersioni, con un tuffo al giorno per ovvi motivi di sicurezza iperbarica. “In questo breve lasso di tempo è stato possibile scandagliare solo una piccola porzione di pianoro vulcanico, circa 400 metri di lunghezza per 80 di larghezza, di un’area molto più vasta che, con ogni probabilità, riserverà numerose altre sorprese negli step successivi di esplorazione che contiamo di compiere nel corso del 2023”, spiega Salvo Emma, operatore subacqueo e responsabile delle comunicazioni istituzionali della Soprintendenza del Mare.Aspettative del resto rafforzate dai risultati delle ultime attività di ricognizione scientifica nelle acque pantesche, concluse poco prima della recente sosta natalizia nel tratto settentrionale dell’isola, tra Cala Cottone e Cala Tramontana. Le prospezioni subacquee, eseguite stavolta con la collaborazione del Corpo delle capitanerie di porto e l’utilizzo di un Rov (robot subacqueo filoguidato), hanno consentito di identificare con chiarezza, oltre a quelle già scoperte, almeno altre 4 anfore. Questo giacimento di reperti verrà mano a mano inserito nel database del Sistema informativo territoriale della Soprintendenza del Mare.Le ricognizioni effettuate dal terzo Nucleo operatori subacquei della Guardia costiera, con il supporto logistico del centro immersioni Dive-Y di Pantelleria, hanno inoltre consentito di monitorare lo stato di salute di un ampio tratto di fondale, tra i 50 e i 100 metri di profondità.Il tesoro archeologico ritrovato dagli alto-fondalisti negli abissi di Gadir lo scorso ottobre ha aperto i riflettori su anfore per la gran parte d’origine punica, come dimostra la loro forma allungata simile a un siluro. Solo una piccola porzione è invece di fattura romana. “Ciò che risalta dalla documentazione fotografica della Sdss è, per quasi tutte, l’ottimo stato di conservazione; pochissime sono state quelle rivenute a frammenti”, aggiunge Emma.In quella circostanza di inizio autunno, la squadra della Sdss era composta da 7 subacquei tecnici divisi in 3 piccoli gruppi, rispettivamente incaricati di eseguire la fotogrammetria del sito, i video delle anfore e le operazioni dei rilievi e delle misurazioni sul sito sommerso. Tutte attività eseguite con attrezzature sofisticate: non solo le mute a tenuta stagna, luci strobo e gli scooter subacquei per percorrere lunghi tratti e contenere gli sforzi aggravati dai molti bar di pressione dell’alta profondità; ma, in particolare, i re-breather, le apparecchiature a circuito chiuso che consentono di riutilizzare il gas espirato riciclandolo in parte e ricostituendolo in modo da potere essere nuovamente respirato, grazie a un sistema elettronico di controllo delle miscele di elio e di ossigeno da adeguare alle profondità alle quali il subacqueo stabilisce il suo assetto.Il ritrovamento di Pantelleria ha un prologo nel 2011. In quell’estate, la parte meno profonda del giacimento di anfore venne individuata per la prima volta dai subacquei Francesco Spaggiani e Fabio Leonardi. “Io stesso feci successivamente un’immersione sul sito, per catalogare i reperti – racconta Mario Arena – . Notando che questo pianoro sabbioso, stretto e lungo, situato tra i 75 e i 100 metri di profondità, tende a declinare con poca pendenza ancora più giù prima precipitare nell’abisso, l’idea di spingersi a esplorare la zona sottostante a questa scarpata è cresciuta in questi ultimi anni. Quando a ottobre siamo potuti arrivare laggiù grazie agli scooter, abbiamo ammirato uno scenario di incredibile meraviglia, con grandi massi vulcanici di ogni dimensione, inframmezzati da colate di sabbia lavica: proprio dove sono disseminate le anfore puniche, al momento conteggiate in 300, ma forse molte di più. Lo si appurerà con le immersioni che programmeremo nel corso di quest’anno”.Le immersioni giornaliere di Arena e compagni hanno avuto una durata di oltre 6 ore, con un tempo di fondo, a 130 metri, di poco superiore a 50 minuti e una risalita, divisa in più tappe, che ha richiesto almeno 5 ore e mezza prima di raggiungere la superficie.La scoperta di Pantelleria segue a altri ritrovamenti in alto fondale, anche questi di portata straordinaria. Come il relitto romano rinvenuto con un Rov dai subacquei di Arpa Sicilia due anni fa con un considerevole carico di anfore a Isola delle Femmine, a ovest di Palermo, a 92 metri di profondità; la nave oneraria con il suo ingente carico di ceramiche da mensa d’epoca tardo-antica, scoperta nel 2020 su un fondale pianeggiante di sabbia e fanghiglia a 75 metri nelle acque siracusane di Ognina dai subacquei altofondalisti Fabio Portella e Stefano Gualtieri.E la nave, anch’essa romana, che il documentarista subacqueo Riccardo Cingillo ha individuato ancora integra nel 2019 a Ustica, a 82 metri di profondità davanti al faro di Punta Falconiera, uno degli spot più spettacolari della cosiddetta “perla nera del Mediterraneo”, punteggiato da spugne e spirografi, durante una prospezione con un mini-sommergibile messo a disposizione della Soprintendenza del Mare da un facoltoso privato asiatico: un relitto che verrà musealizzato in situ. Un’operazione che, come per il relitto di Isola delle Femmine, si è svolta in collaborazione con l’Università di Malta.“La strada maestra indicataci da Sebastiano Tusa è ancora lunghissima e c’è tantissimo da fare – dice il soprintendente del Mare, Ferdinando Maurici – . Un solo riferimento: la possibilità impensabile fino a qualche anno fa di immergersi in acque molto profonde. Oggi anche i subacquei della nostra soprintendenza sono in condizioni di utilizzare strumentazioni tecniche che consentono di raggiungere quote di immersione molto impegnative con lunghi tempi di permanenza. Un know how che con la collaborazione con la Sdss e l’Università di Malta sta già aprendo frontiere appassionanti, perché permette di individuare, anche se con rigidi limiti di sicurezza che restano prioritari, la storia di relitti sprofondati a quote abissali e effettuare riprese fotografiche indispensabili per realizzare modelli 3D del loro carico. Documentazioni preziose per studiare la tipologia delle anfore, le loro dimensioni, la loro datazione storica e ipotizzarne il contenuto”.Per le immersioni profonde l’utilizzo del rebreather sembra pian piano soppiantare l’utilizzo delle più scomode configurazioni con più bombole e più miscele. Ormai di appassionati che scendono con questa macchina che non emette bolle proprio perché a circuito chiuso, in Sicilia se ne contano diverse decine e il numero aumenta, con prospettive promettenti sul fronte del turismo d’alta fascia legato alle attività subacquee. Una nicchia di turismo archeologico subacqueo ormai conclamata, con una domanda spinta da una clientela danarosa e desiderosa di partecipare anche a spedizioni scientifiche.Un’immersione con il rebreather e l’accompagnamento di guide diving specializzate arriva adesso a costare da sola alcune centinaia di euro: effetto degli aumenti del costo dei gas causati dalle attuali vicende geopolitiche, incluso quindi quello dell’ossigeno e dell’elio miscelati da questi marchingegni, così come il prezzo del materiale per la loro depurazione. Una branca che, sottolinea Mauceri, “rende adesso indispensabile una normativa severa e ben precisa che obblighi i praticanti delle immersioni in alto fondale a revisioni accurate e continue sia delle attrezzature sia del loro stato psicofisico, con un limite di età per praticare la subacquea in questo campo così impegnativo e del tutto nuovo”.Gli appassionati della più accessibile subacquea ricreativa praticata con la tradizionale mono-bombola, godono comunque di una ricca scelta in Sicilia: sono infatti 26 gli itinerari archeologici sommersi finora istituiti dalla Soprintendenza del Mare, distribuiti tra le zone litorali di 4 province e 7 isole circumsiciliane. A Pantelleria, oltre all’itinerario di Cala Gadir, che offre la possibilità di ammirare anfore e ancore, sono attivi quello di Punta Tracino, con la presenza di ancore in ferro, in pietra e in piombo e di Cala Tramontana, a 18 metri di profondità, fruibile da subacquei con brevetto di primo livello: anche lì ancore, diverse tipologie di anfore e macine in pietra. In base alla convenzione Unesco sul patrimonio culturale sommerso, in assenza di rischi di depredazione, i reperti sommersi non devono essere portati in superficie. Ove possibile devono invece essere resi fruibili quelli sparsi entro gli 80 metri di profondità. Su questo solco il Mediterraneo continua a confermarsi come il più grande museo archeologico del mondo.